Le Vittime Della Mafia

Antonio Ammaturo

Biografia: 

Laureato in giurisprudenza, entrò in Polizia nel 1955 e fu assegnato alla Questura di Bolzano. Prestò servizio nelle Questure di Avellino, Benevento, Potenza e Napoli. Per otto anni diresse il Commissariato di Giugliano (Na), dove si distinse nella lotta alla camorra e alla delinquenza organizzata. Nel 1981, nominato dirigente della Squadra Mobile di Napoli, venne impegnato in rischiose operazioni di polizia giudiziaria contro la delinquenza politica e comune. Insignito della medaglia d’oro al Valor Civile “alla memoria”, il 10 maggio 1983

Ucciso Dalle BR

Il vice Questore Antonio Ammaturo era capo della Squadra Mobile di Napoli. Il 15 luglio 1982 era appena uscito dalla propria abitazione per recarsi in Questura con l’auto di servizio guidata dall’agente scelto Pasquale Paola quando due uomini, scesi da una vettura, aprirono il fuoco contro l’auto, assassinandone gli occupanti. Gli autori del fatto risultarono appartenere alle “Brigate Rosse”. Riuscirono a fuggire, ma furono arrestati alcuni mesi dopo insieme ad altri complici, implicati anche nel sequestro Cirillo (27 aprile 1981) e nell’omicidio dell’assessore Delcogliano (27 aprile 1982).

Nunziante Scibelli

Biografia:

Nunziante era nato a Taurano, poco più di 1500 abitanti, nel 1965. Era un ragazzo per bene con una vita normale e tranquilla. Lavorava come bracciante, ma, proprio in quegli ultimi mesi del 1991, era in attesa di iniziare un nuovo lavoro come guardia giurata presso un’azienda del territorio. Una maggiore stabilità economica che gli avrebbe permesso di prendersi cura della sua giovane famiglia. Il centro della sua vita era Francesca, una ragazza di un paio d’anni più giovane di lui, di cui si era profondamente innamorato e che aveva sposato, nell’estate del ’91, quando lei già aspettava una bambina. Nessuna macchia sulla vita di questo onesto e giovane lavoratore. Né su quella di Francesca, il cui cognome – Cava – richiamava alla mente quello della potente famiglia di camorra del territorio, ma con la quale questa ragazza non aveva alcun tipo di legame e nulla da che spartire.

Prima Vittima Innocente

Il 30 ottobre 1991, la faida Cava-Graziano miete la prima vittima innocente della sanguinosa guerra tra clan. Si chiama Nunziante Scibelli, ha 26 anni, è di Taurano e fa l’operaio. La sua colpa: passare pochi istanti dopo con la stessa macchina dei veri obiettivi dei killer, un’alfetta marrone. Succede a Ima, frazione di Lauro, in prima serata. Nunziante è con la moglie in macchina. Stanno facendo un giro. La signora è incita al settimo mese. Una mare di pallottole li colpisce. L’auto è crivellata. Solo per miracolo la moglie, Francesca, rimane viva e con lei, la cosa più importante che le ha lasciato Nunziante. Il giovane invece muore sul colpo, crivellato di colpi. 

Vincenzo Cava

I Graziano, assassinarono Vincenzo Cava per vendicare Eugenio Graziano, una delle vittime della strage di Scisciano, verificatasi nel novembre del 1991, che fu ammazzato con le medesime modalità.

Vendetta Trasversale

Pago Vallo Lauro 12 dicembre 1991. La risposta del clan Graziano all’uccisione di Eugenio, elemento apicale del clan, non si fa attendere. Infatti il 12 dicembre, alle  ore 19.30 circa, in Pago Vallo Lauro, viene ucciso a colpi di fucile caricato a pallettoni Vincenzo Cava, figlio di Salvatore, fratello del boss Biagio. Vincenzo Cava è un’altra vittima innocente della faida. Quando fu ucciso aveva 19 anni ed era affetto da problemi psichici sin dalla nascita. “A causa del suo stato di salute non era sicuramente implicato nella lotta con in Graziano, tanto che lo stesso era solito girovagare liberamente a differenza degli altri componenti la famiglia Cava, guardinghi e prudenti nel loro fare quotidiano”- dalla relazione sull’accaduto delle forze dell’ordine. E’ la fredda vendetta dei Graziano per la morte del loro erede al trono. In pratica viene colpito il primo nemico che s’incontra, a prescindere dal ruolo criminale ricoperto. 

Pasquale Campanello

Biografia: 

Nato ad Avellino, Pasquale si era diplomato in agraria e progettava di fare l’enologo, ma poi aveva scelto di indossare la divisa, rinunciando ad altri sogni. Quando nel 1990 venne istituito il Corpo di Polizia Penitenziaria, Pasquale era diventato sovrintendente Capo del Corpo.

Assegnato alla Casa Circondariale di Poggioreale, nel quale erano reclusi diversi affiliati alla Camorra, si distinse per l’intransigenza con la quale svolgeva il proprio lavoro. Fu proprio questa sua intransigenza che firmò la sua condanna a morte da parte dei clan, che non potevano sopportare la sfida che Condello portava avanti ogni giorno nel carcere allo strapotere dei detenuti cammorristi.

Poliziotto Penitenziario

Accadde esattamente questo la sera di domenica 30 ottobre 1991. Nunziante era a bordo della sua Giulietta blu scuro. Accanto a lui c’era Francesca, incinta al settimo mese. Stavano raggiungendo il padre di lui, ricoverato in ospedale. Intorno alle 20.00, la Giulietta stava percorrendo una strada poco illuminata di Ima, una frazione di Lauro. Giunta a pochi metri dalla curva di Quindici, la macchina fu investita improvvisamente da una violentissima scarica di armi da fuoco. Più di cento pallottole, esplose anche con un fucile kalashnikov. Un inferno, del quale forse Nunziante non ebbe neanche il tempo di accorgersi. Si accasciò sullo sterzo. Francesca, nonostante le ferite, riuscì a uscire viva da quella pioggia di fuoco. Con lei, anche la bimba che portava in grembo. I due furono portati in due ospedali diversi. Lei al Loreto Mare di Napoli. Lui invece al Cardarelli, dove spirò intorno alle 9 del mattino successivo, lunedì 31 ottobre.

Salvatore Manzi

Biografia: 

Salvatore Manzi nasce nel 1966; è originario di Quindici, piccolo comune della provincia di Avellino, in Campania, situato nel Vallo di Lauro, una zona al confine con l’area nolana e l’agro nocerino sarnese. Lì trascorre la sua infanzia e giovinezza, fino a quando non si trasferirà per lavoro.
È un ragazzo umile e con la testa sulle spalle che, non appena raggiunta la maggiore età si arruola in Marina. La sua vita scorre serena; conosce Flora, una ragazza di cui si innamora che presto diventerà sua moglie e che gli darà la gioia immensa di diventare papà. Fa carriera nella Marina militare tanto da diventare, in poco tempo, sottufficiale. 
Negli anni diventa capo di terza classe negli uffici del Ministero della Difesa e la sua vita si divide tra Nola, dove vive con la sua famiglia, e Roma, quartiere Eur, sede della Direzione generale delle Telecomunicazioni, dove lavora. Infatti, Salvatore fa il pendolare, ma non gli pesa: ama la sua terra ed è lì che vuole vivere con la sua Flora e dove vuol far crescere il loro figlioletto, Mario. È un papà attento e premuroso e sogna per lui un futuro raggiante.

Scambio Di Persona


Il 26 gennaio del 1996 È finalmente arrivato il venerdì e Salvatore, prima di rientrare a Nola si ferma a Cicciano, paesino vicino a Napoli e poco distante da Nola, per una partita di calcetto tra colleghi. Sono le 22 circa di quel venerdì che ha tutta l’aria di essere l’inizio di un fine settimana sereno e spensierato: dopo la partita, infatti, Salvatore potrà raggiungere la sua famiglia e trascorrere due giornate piene assieme a loro. Potrà riempire di attenzioni la sua Flora e di coccole il loro bambino, che adesso ha 5 anni. La partita va avanti tra goal e battute tra colleghi quando, all’improvviso, quel clima sereno e scherzoso lascerà il posto al terrore. Due persone, incappucciate e armate, fanno irruzione nell’impianto sportivo, interrompono la partita e fanno stendere subito a terra tutti e otto i giocatori, facendo credere che quella sia una rapina. Poi però si avvicinano a Salvatore, gli sollevano il mento per esser certi della sua identità e sparano tre colpi di fucile a canne mozze, a distanza ravvicinata. Per Salvatore, ovviamente, non ci sarà scampo; morirà così, ucciso come un capocosca, sotto gli occhi attoniti e increduli degli amici, mentre i killer scappano senza lasciare traccia.

Vittorio Rega

Biografia: 

Vittorio fu ucciso a Maddaloni, in località “Fontana Olmo Cupo”, perché scambiato dai membri del clan Belforte di Marcianise per Gianbattista Tartaglione, affiliato al clan Piccolo e vero obiettivo del raid omicidiario.
Il 28 marzo 2018, a 22 anni di distanza, vennero individuati i colpevoli: Antonio Bruno e Pasquale Cirillo, membri del clan Belforte di Marcianise ed entrambi già detenuti.
Nel dicembre 2019, Bruno venne condannato a 20 anni, mentre Cirillo a 30. In primo grado era stato condannato il boss Salvatore Belforte, che non ricorse in appello, condannato a 20 anni.

Geometra Onesto

Vittorio Rega, geometra ucciso per errore, nel 1996: viaggiava a bordo di una vettura uguale a quella del vero obiettivo dei due killer. Il geometra fu una vittima innocente della sanguinosa faida che ha contrapposto per anni i due clan camorristici di Marcianise, i Belforte, noti come “Mazzacane”, e i Piccolo, soprannominati “Quaqquarone”; una faida che portò la prefettura di Caserta a ordinare un vero coprifuoco, ordinando a bar e locali pubblici di chiudere. Rega fu trovato agonizzante il 30 luglio 1996 nelle campagne di Maddaloni, ma riuscì comunque a riferire l’accaduto agli agenti della Polizia di Stato; per anni però i responsabili dell’omicidio sono rimasti ignoti

Francesco Antonio Santaniello

Biografia:

Francesco Antonio Santaniello (Quindici (AV), All’età di 15 anni Francesco Santaniello si trasferì in Germania e lavorò come muratore. Nel 1977 decise di sposarsi e un anno dopo divenne padre di due gemelle, così Francesco e sua moglie decisero di tornare in Italia. Dopo qualche anno arrivò anche il terzo figlio. Nel 1992 decise di investire i risparmi aprendo un’azienda edile ad Avellino, la quale ebbe un buon avviamento. Francesco venne ucciso da un commando di camorra all’interno della sua attività, il corpo senza vita venne ritrovato dal figlio.

Imprenditore Integerrimo


Il 31 gennaio del 2002 Francesco rientra nei capannoni di Lauro nel pomeriggio, dopo un’intensa giornata di lavoro. In azienda c’è anche Arturo, all’epoca diciottenne. In quel periodo stanno lavorando alla costruzione della casa di Rosalinda, che doveva sposarsi. Intorno alle 18.00 qualcuno riesce a entrare nel capannone dove si trova Francesco. È un’esecuzione vigliacca. Chi spara non ha il coraggio di mostrarsi in volto. Usa un silenziatore ed esplode quattro colpi di una calibro 22, tra dei quali raggiungono Totonno alla schiena. L’ultimo lo colpisce alla spalla. L’uomo non muore subito. Quando Arturo, che non aveva sentito nulla, lo ritrova riverso in un lago di sangue, Totonno respira ancora. Viene soccorso immediatamente e portato all’ospedale di Nola. Ma per lui non ci sarà nulla da fare. Morirà così, a 50 anni.

Clarissa Cava

La ricostruzione giudiziaria dell’agguato

Fu un vero e proprio agguato ordito dalle Graziano contro le Cava con l’aiuto degli uomini del clan. A parlare sono gli inequivocabili segni sulle auto, i tre veicoli implicati nell’incidente di via Cassese. Sono quasi le otto e mezza di sera quando due macchine, l’Alfa Romeo 147 di Alba Scibelli e l’Audi 80 di Michelina Cava, iniziano ad urtarsi lateralmente su via del Balzo, strada centrale di Lauro che poi sfocia su via Cassese. La Scibelli affianca l’auto delle rivali cercando di bloccarne la marcia. Lo fa per alcune centinaia di metri fino finché l’Audi non trova di fronte, nel senso opposto di marcia, l’Alfetta blindata guidata dagli uomini dei Graziano, che gli sbarra definitivamente la strada. Non sono note le intenzioni degli aggressori, solo un chiarimento oppure un omicidio predeterminato, sta di fatto che il ring è pronto e gli sfidanti escono dalle auto che bloccano definitivamente via Cassese nei due sensi di marcia. Per il tribunale si tratta di una vera e propria imboscata allo scopo di trucidare le rivali. La ricerca delle vittime via cellulare, intercettata nei giorni precedenti ai carabinieri e l’operazione di accerchiamento con le auto, ne sono prova lampante. Per i componenti del clan Graziano, si è trattato invece di una “chiarimento” andato male per via dell’esplosione a tradimento di alcuni colpi di pistola contro di loro.

Il tribunale preciserà che il blocco dell’auto “è la mossa da manuale non prevista dalle Cava”.

Antonio Graziano, l’autore materiale della strage, condannato a 30 anni di carcere, per avvalorare la tesi della legittima difesa, in aula si dichiarerà responsabile dell’omicidio ma di “aver sparato solo dopo essere stato colpito alla spalla e di aver visto colpiti anche il genitore e le nipoti”. Dalla sua deposizione, Antonio Graziano, in quel periodo latitante, spiega di essere arrivato sul posto perché chiamato dalla cognata Alba Scibelli al fine di fare da paciere tra le donne dei due clan. Di essere arrivato lì con il genitore, il quale era disarmato. Di avere lui un’arma, com’è sua abitudine quando usciva, di una pistola calibro 40 e di aver urtato l’Audi 80 solo per un malfunzionamento ai freni dell’Alfetta.

Specificherà poi di essersi avvicinato alla portiera dell’Audi dalla parte del passeggero dov’era seduta Maria Scibelli per chiarire la questione quando sentì un colpo alla spalla mentre le nipoti urlavano “Ci stanno sparando, ci stanno sparando”. Avrebbe detto alla donna prima di premere il grilletto di “non litigare, voi siete donne e fatevi i fatti vostri. La dovete finire, non dovete bisticciare con le mie nipoti perché non c’entrano niente con questi fatti (la faida)e le dovete lasciare stare”.

Anche il padre di Antonio Graziano, Luigi Salvatore espone i fatti in tal modo. Arrivato sul posto, appena sceso dall’auto viene preso da un colpo di arma da fuoco al petto e da una bastonata al capo mentre sua nipote era in colluttazione con una delle rivali che aveva in mano una pistola, pronta a far fuoco (sua nipote Stefania era in colluttazione con Cava Felicia, che impugnava un revolver; che, in particolare, sua nipote tentava di trattenere il braccio e la mano di Felicia per non consentirle di sparare – la deposizione). La corte osserverà che “Luigi Salvatore Graziano è giunto sul luogo del delitto armato di pistola. La prova la fornisce, in primo luogo, l’esito dello stub sugli abiti: il Graziano è stato inondato di particelle “univoche” e di particelle “caratteristiche” dell’esplosione di colpi d’arma da fuoco, il che significa che era armato ed ha sparato. Verosimilmente è dalla sua pistola che è partito quell’unico colpo cal. 9×21 repertato in sede di sopralluogo. E probabilmente è stato un unico colpo proprio perché egli si accasciò al suolo ferito al torace e alla testa”.

Se sui pantaloni indossati dall’anziano boss sono state rinvenute 15 particelle “univoche” composte da piombo, bario e antimonio; sui jeans indossati dalla nipote Chiara ne sono state rinvenute 13, sempre particelle univoche. “Le cosiddette particelle univoche sono quelle composte dai tre elementi tipici: piombo, bario e antimonio, la cui compresenza è prova inequivocabile che sulla superficie interessata dal prelievo si sono poggiati i residui dello sparo. La scienza, invero, non conosce altro fenomeno naturale o umano che dà luogo alla formazione di quel tipo di particelle. Quelle in cui risultano combinati tra loro solo due dei citati elementi sono invece definite “compatibili” con i residui dell’esplosione di colpi d’arma da fuoco: la loro presenza diviene particolarmente significativa quando vengono rilevate unitamente alle particelle univoche”.

Oltre a Luigi Salvatore e la nipote Chiara, a sparare ancora per i Graziano è stato Antonio, detto “o sanguinario” per sua stessa ammissione.

Mentre a premere il grilletto contro i Graziano, ferendoli, è stata Felicetta Cava. Lo ha fatto per legittima difesa come lei stessa precisa. “Io mi sono avventata sulle donne. Anche loro avevano una pistola ed io sono riuscita a prenderla ed ho sparato contro Antonio Graziano, poi verso Luigi Salvator Graziano e poi non so nemmeno dove perché ero molto agitata”. 

Le dichiarazioni degli imputati e gli esiti della balistica sono estratti dalla sentenza della corte di assise di Avellino, emessa il 10 febbraio 2005, che ha giudicato sull’eccidio.

Emblematica per il tribunale l’intercettazione ambientale tra i fratelli Adriano e Antonio alle 20,30 di quella sera. “Che cosa è successo – chiede Adriano che non è sul luogo dell’eccidio. “Le ho uccise tutte quante, ci hanno sparato addosso – la risposta di Antonio. “Papà e la pistola? – richiede Adriano. “La tengo dietro, eccola” – chiude il fratello. L’intercettazione avrà un duplice valore. Inchioderà l’assassino e scagionerà Adriano Graziano dalle accuse di aver partecipato alla strage.

Per la balistica però, la tesi della legittima difesa dei Graziano non regge. Le donne del clan Cava hanno sparato, ma dalla ricostruzione l’hanno fatto dopo che Antonio Graziano aveva sparato almeno i primi colpi. Il tribunale chiarirà che le Cava “erano munite di innumerevoli armi improprie e di armi proprie, un revolver calibro 38 o 357 magnum” ma con l’arrivo degli uomini “lo scontro, certamente voluto da entrambi i gruppi, diventa impari ed inevitabilmente i Graziano hanno il sopravvento”. 

La balistica ricostruisce anche la potenza di fuoco. I Graziano hanno sparato almeno trentasette colpi con due pistole, la calibro 40 Smith e Wesson, con molta probabilità una Beretta modello 96, e una semiautomatica 9 per 21. Le Cava invece hanno esploso cinque colpi con un revolver 38 special o una 357 Magnum.

Le condanne tengono conto che le donne della famiglia Graziano hanno “tamponato la vettura delle rivali, determinandone l’arresto, sollecitano l’intervento degli uomini del clan che impediscono alle vittime ogni via di fuga ed esplodono vari colpi di pistola all’indirizzo delle vittime.

anche se vi sono alcuni aspetti lacunose che non servono sicuramente a chiarire la dinamica ma a precisare alcuni particolari dell’agguato.

Nessuna pistola fu trovata sul luogo dell’eccidio. Qualcuno ha quindi ripulito la scena subito dopo la strage. E poi ci sono altre persone che hanno partecipato alla strage e sono riuscite a scappare?

E i testimoni? Come fa una sparatoria tra almeno dieci persone a non essere vista da nessuno? Questi i vari quesiti degli investigatori. Per la strage, scaturita dal una lite tra donne degenerata poi in eccidio, verranno condannati Antonio e il padre Luigi Salvatore Graziano all’ergastolo, pena tramutata in appello a 30 anni di reclusione. Mentre in giudizio separato verranno riconosciute colpevoli di omicidio volontario senza l’aggravante del metodo mafioso e la premeditazione, Alba Scibelli (ergastolo), Chiara e Stefania Graziano (10 anni e 10 mesi) e Chiara Manzi (10 anni e 8 mesi). In primo grado alle giovani Graziano era stata comminata una pena a 14 anni, alla nonna Chiara Manzi invece 16 anni perché condannata anche per detenzione illegale di arma da fuoco, per l’episodio della pistola che nascondeva addosso nell’ospedale di Nola.

La strage delle donne

Lauro 26 maggio 2002. La strage delle donne di mafia, come fu apostrofata in tutto il mondo, è uno dei punti di non ritorno della faida, fatto di sangue che genererà altro dolore. È la prima volta che le donne scendono in campo per farsi la guerra e accadde qualcosa di inaspettato: una lite degenera in omicidio. Tre donne vengono uccise, sono la sorella, la cognata e la figlia del capo clan Biagio Cava: Michelina Cava (51 anni), Maria Scibelli (53) e Clarissa Cava (15). Un fatto, dal punto di vista umano, tremendo per tutti; per i componenti dei clan, per i fiancheggiatori e per la comunità.

È il 26 maggio del 2002, mancano pochi minuti alle 20,30 di una bellissima domenica primaverile nella quale si sanciscono anche le elezioni comunali a Lauro. Bastano pochi istanti perché la competizione politica passi in secondo piano e il buio della notte diventi rosso sangue.

Alla centrale operativa della polizia arriva una chiamata: “C’è una sparatoria a via Cassese di Lauro”. E’ una zona centrale, cosa è mai potuto succedere?

I primi uomini delle forze dell’ordine ad arrivare trovano un’Audi 80 di colore verde con gli sportelli del lato guida aperti e il parabrezza perforato dai proiettili. E’ posta sul lato destro, direzione Nola. A terra, tre donne, mentre in auto ce ne sono altre due. Tutte con evidenti ferite da arma da fuoco. Felicia Cava, figlia di “Biagino”, 19 anni, viene subito portata in ospedale con un’autoambulanza. Italia Galeotalanza, 21 anni, cugina di Felicia, è invece trasportata con un’auto di servizio della polizia. Michelina Cava muore subito dopo l’arrivo in ospedale mentre Maria Scibelli e Clarissa Cava finiscono mentre si organizzano i soccorsi. Le due superstiti della strage si salvano grazie al tempestivo intervento dei soccorritori in pratica.

La zona è subito sgomberata e circoscritta. Da primi istanti, si capisce che non è un normale omicidio, se un assassinio può esserlo. Le cinque donne colpite nella sparatoria sono le due figlie di Biagio Cava, boss dell’omonimo clan (Clarissa e Felicia), la sorella (Michelina), la cognata (Maria Scibelli) e la nipote, figlia di quest’ultima (Italia Galeotalanza).

È un omicidio di camorra, per gli investigatori, non c’è dubbio.

Sul posto vengono repertati un martello, uno scalpello, una piccozza in metallo, una sbarra di ferro e un bastone di legno. Nell’auto, l’Audi 80, saranno invece trovate delle forbici e un flacone con dell’acido muriatico. Un vero e proprio arsenale di armi improprie.

Di bossoli invece ne vengono trovati diversi: venti calibro 40 Smith e Wesson, di cui diciotto in strada e due nell’auto. Poi ancora nove proiettili calibro 40 sempre S.W, uno calibro 30 special o 357 Magnum e un proiettile calibro 9 per 21, le cui ogive furono rinvenute sul manto stradale, nell’Audi e in una Fiat Uno parcheggiata lì vicino. 

Per terra c’è parte dello stemma di un‘Alfa Romeo, caratteristico del frontale delle auto torinesi.

L’Audi invece ha il parabrezza perforato da sei colpi e ammaccature e danni da incidente stradale oltre che da colpi di pistola.

I sospetti degli investigatori puntano subito sul clan rivale, i Graziano, e scattarono gli immediati controlli. Una sorpresa però desta gli investigatori appena arrivati all’ospedale di Nola dove sono state trasportate le donne della famiglie Cava, superstiti alla strage, ancora in pericolo di vita. Nel plesso sanitario ci sono anche i Graziano, pure loro con ferite da arma da fuoco.

Luigi Salvatore Graziano, 68 anni, e le nipoti Chiara e Stefania, 21 e 20 anni, figlie del defunto figlio Eugenio, sono in pronto soccorso. La madre delle due ragazze e nuora del vecchio boss, Alba Scibelli, viene trovata mentre con un batuffolo di ovatta, impregnato di qualche sostanza, cerca di pulirsi le mani. Una tecnica forse per eludere l’esame dello stub, quello che si fa per analizzare e certificare la presenza sulle mani di polvere da sparo. Se si conferma la presenza di residui, è altamente probabile che si sia utilizzata un’arma da fuoco nell’immediato. E’ in ospedale anche Chiara Manzi, 62 anni, la nonna delle ragazze nonché moglie di Luigi Salvatore. Non è ferita, è corsa a sincerarsi delle condizioni del marito e delle nipoti. In una perquisizione le verrà trovata occultata addosso una pistola 9 per 21 con matricola abrasa.

Nello stesso momento si svolge una perquisizione domiciliare presso le abitazioni dei Graziano a Quindici e dopo un giorno viene scovato in un nascondiglio interno all’abitazione, Antonio Graziano, 39 anni, con una ferita da arma da fuoco alla spalla destra. Graziano aveva con se due caricatori vuoti per una pistola calibro 40, compatibili quindi con quella usata per l’eccidio, e tre radiotrasmittenti, probabilmente sintonizzate sulle frequenze delle forze dell’ordine.

Alla fine, si contano tre morti e sei feriti.

I controlli delle forze dell’ordine sono spasmodici. In una stradina affianco la villa dei Graziano a Quindici che arriva fino ad un ingresso secondario del complesso edilizio, viene ritrovata l’Alfetta blindata di colore blu, usata dalla famiglia. È ammaccata nella parte anteriore, sulla quale presenta anche due fori di proiettili, e non ha più lo stemma tipico delle auto Alfa Romeo. Viene rinvenuta anche l’auto usata da Alba Scibelli, un’Alfa Romeo 147. Ha delle ammaccature sul lato destro. All’interno ci sono quattro coltelli e diverse macchie di sangue, come anche sulla mascherina del motore e sulla maniglia della portiera.

Il quadro investigativo è quasi chiuso.

L’Alfetta blindata presenta danni al lato anteriore, la 147 Alfa Romeo a sinistra e l’Audi a destra e davanti. Verosimilmente, l’Audi è stata bloccata dall’Alfetta che veniva dal senso contrario e speronata di lato dalla 147.

Ma prima di azzardare una ricostruzione della dinamica della strage, ci dobbiamo soffermare qualche istante sulle armi usate. Sono sicuramente tre: una semiautomatica calibro 40 Smith e Wesson, con molta probabilità una Beretta modello 96; una semiautomatica calibro 9 per 21 e un revolver 38 special o 357 Magnum.   

Le Cava sono state colpite da proiettili calibro 40, i Graziano dal revolver. La pistola 9 per 21 non ha colpito nessuno ma ha sicuramente sparato visto il bossolo ritrovato.

 

L’analisi dei tamponi sarà tanto chiara quanto discutibile. Vengono ritrovate particelle compatibili con i residui di colpi di arma da fuoco su tutti e cinque i componenti della famiglia Graziano. Non è semplice però risalire agli autori perché in una sparatoria come quella che è avvenuta, basta stare vicino a chi preme il grilletto per essere inondato dal pulviscolo. La difesa dei Graziano in questo è chiara. Dalle ipotesi investigative comunque a sparare sono state sicuramente più persone. Per la difesa, non è tanto semplice in una situazione di questo genere.   

Per ricostruire la dinamica dell’eccidio, importanti saranno le intercettazioni telefoniche disposte dalla direzione distrettuale antimafia di Napoli che ha aperto un fascicolo sulle infiltrazioni camorristiche inerenti la gestione dei contributi statali del post frana di Quindici. Il paesino irpino il 5 maggio del 1998 fu colpito da un evento alluvionale di inaudita violenza che distrusse la frazione di Casamanzi e fece undici vittime. I finanziamenti statali hanno fatto avviare una serie di grandi opere per la messa in sicurezza. La Dda vuol vederci chiaro su quei finanziamenti, per capire se la criminalità organizzata locale ci ha messo le mani sopra.

Dalle intercettazioni, i carabinieri ascoltano tutto, a volte a che la voce di Antonio Graziano, all’epoca latitante, chiamato per telefono “Eugenio”. E proprio da questo atto investigativo si svelerà l’origine della strage, facendolo risultare quindi di prima importanza probatoria ai fini processuali.

Un litigio. Un banale ma violento litigio tra le donne delle due fazioni alla base di uno degli episodi più cruenti della faida: la strage della donne. Qualche giorno prima dell’eccidio, c’era stata una lite nella quale Stefania Graziano e la madre Alba Scibelli avevano avuto la peggio. Le intercettazioni dei carabinieri confermano questa circostanza. Il muso che si sta gonfiando; lo svenimento di una delle nipoti dei Graziano; la conversazione tra due donne sulle considerazioni della gente per quel filo di sangue sulla fronte di Alba Scibelli. C’è tutto agli atti. Anche le scuse alle domande dei conoscenti e la tormentosa ricerca delle rivali per vendicarsi. Tutti, specialmente le donne del clan, sono attente e vigili. Cercano spasmodicamente la macchina verde, l’Audi 80 usata dalle Cava per muoversi. Le apparecchiature dei militari, nei giorni 25 e 26 maggio, catturano diverse telefonate tra le varie utenze tutte con un unico argomento: la ricerca delle rivali, con appellativi abbastanza scurrili. L’ultima conversazione registrata dai carabinieri è delle 20.23 del 26 maggio. La sparatoria è in atto oppure si è conclusa da poco. Il tono è più acceso come fosse successo qualcosa di forte?. E difatti è successo qualcosa di grave, molto grave.

 

Antonio e Francesco Graziano

Non sarà così invece. La loro auto viene bloccata a San Paolo Belsito, comune che viene prima di Nola, in uno spazio angusto da dove è praticamente impossibile scappare. Vengono colpiti all’addome, per bloccare l’auto e poi un colpo di grazia in testa. Franco, che paga in quel momento la decisione di voler accompagnare lo zio, come quotidianamente faceva da anni, riesce ad aprire lo sportello dell’auto. Cerca di fuggire ma viene attinto da alcuni colpi alla schiena. Sul posto verranno trovati nove bossoli di 9 per 21, modello di pistola usata insieme a diverse armi semiautomatiche.

È vendetta trasversale.

Vendetta Trasversale


San Paolo Belsito 11 giugno 2004. Alle 7,15 del 11 giugno del 2004 mentre si stanno recando al lavoro, in un supermercato di Nola, vengono uccisi in un tipico agguato camorristico Antonio Graziano, 58 anni, e suo nipote Francesco, 32. Antonio Graziano è il suocero di Adriano Graziano, il padre della moglie. Solo una omonimia quella del cognome. Le attività erano completamente differenti. Antonio Graziano è un emigrante che ha fatto fortuna in Sudamerica per poi tornare, a metà degli anni Ottanta, in Italia e avviare un’attività commerciale. È il proprietario di un noto supermercato a Nola con una solida clientela. Nulla a che vedere con questioni criminali. Quella mattina, la faida lo annovera tra le sue vittime insieme al nipote Francesco, figlio del fratello, con il quale lavorava. I due viaggiano nell’Alfa Romeo 156 di Antonio. Alla guida c’è Franco. Fanno quella strada da tanti anni, senza mai aver avuto problemi. Sono stati messi in guardia dalle forze dell’ordine come possibili bersagli di una vendetta trasversale ma ribadiscono che non c’entrano nulla nelle vicende criminali. Sono solo degli onesti e infaticabili lavoratori. Fanno la stessa strada ogni giorno alla stessa ora. Le questioni della camorra non li possono colpire più di tanto.

Vincenzo Mazzocchi

Scambio Di Persona


Lauro 31 agosto 2004. Non passano nemmeno tre mesi e scorre di nuovo del sangue innocente. C’è una nuova vendetta trasversale. A morire sotto i proiettili dei killer è stavolta Vincenzo Mazzocchi, 73 anni, ex poliziotto in pensione. È la prima volta che nella faida viene ucciso una persona di Lauro. L’anziano è il padre di Antonio, il marito della figlia del boss Luigi Salvatore Graziano e sorella di Antonio e Adriano. Il sangue macchia la festa patronale di Lauro. Il 31 di agosto, mentre la banda in piazza suona le liriche della festa, Vincenzo Mazzocchi si trova seduto sulle panchine di Ima, la frazione lauretana dove dimora. È a pochi passi da casa, a parlare con gli amici. Abitudine che coltiva da molti anni. Alle 22,45, una moto con due individui a bordo, coperti dal casco, arriva lì vicino e fa fuoco. Nove colpi di calibro 9 per 21 e la fuga per la montagnola, una zona di aperta campagna che fa perdere le tracce dei malviventi. È di nuovo vendetta trasversale. Stavolta però a cadere non solo è un uomo che nulla ha che vedere con le attività criminali del clan ma ha portato anche una divisa, quella della polizia di stato.